lunedì 14 novembre 2016

il mio uomo a schermo piatto (impiego di neuroni previsto: 2,5)

Una volta, tanto tempo fa, iniziando una dieta che pensavo mi avrebbe portato ad eccellenti risultati, una ragazza mi disse: "è incredibile come quello che vedi allo specchio non corrisponda alla realtà". Vale a dire che fin quando ci sei dentro (a questo corpo, a questa mente, a questo cuore) non avrai mai una visione di te veramentr adiacente alla realtà. Questo pensiero indubbiamente mi ha portata a desistere, e a non perdere i chili che avrei dovuto. Quando si parla di cuore, allora, è ancora peggio. Sono vittima, come credo lo siate tutti voi, di una sorta di standby mentale, ed è il cuore ad ordinarlo. È come se non riuscissi più a vedere la realtà. E la realtà, carissimi, è che ho iniziato una relazione con un uomo che di lì a tre settimane sarebbe andato a vivere dall'altra parte del mondo. Ora, il discorso è che quello che provo col cuore non corrisponde, a volte, con quello che la mia mente elabora. Il cuore mi dice che questi mesi passeranno in fretta e che reggeremo a qualunque minaccia esterna, sia il tempo, altri cuori, la distanza. La mente, superstite monca di esperienze pregresse, mi dice che la realtà è ben diversa. Concepire l'inizio di una storia come la migliore storia possibile, e ritrovarsi poi solo tre mesi dopo a ricucire strappi che sembrano talvolta irreparabili. Eppure la trama è la stessa - e che trama, io Penelope, lui Ulisse -, e mi stupisco di come possa andare. Cucio, talvolta annoiata, credendo che il risultato finale sarà una maglia per tutte le stagioni a venire. Mollo ago e filo, in taluni momenti, cosciente che questa relazione è a rischio praticamente già prima di esser nata. Il mio cuore trema, la mia mente sa ragionare. Persino il mio corpo manda impulsi magnetici, mi dice prendi un aereo e raggiungilo, mi dice che ha voglia delle sue carezze. Il telefono sembra un'appendice del mio corpo, il mio fidanzato a schermo piatto, l'unica fonte per non desistere. Ha pulsanti di accensione e a volte ha occhi, pure. Ha una voce che è la sua, solo a volte un po' meccanica. Vibra, come se fosse un sentimento nel cuore. E dunque la mente sa che il mio uomo non è tascabile, non squilla e non si scarica sul più bello, ma il mio cuore fatica a concepirlo.

Driiiiin driiiiin

Mi bacia così, e io impazzisco.

sabato 17 settembre 2016

Maritozzo alla panna (impiego di neuroni previsto 2)

"Ebbene sì, signori e signore, è successo".

Adelaide si sveglia nel pieno di un monologo teatrale: la donna, in evidente stato confusionale, descrive alla platea il suo nuovo sentimento, così entusiasmante, così caldo e così difficile da provare. Si sveglia proprio sul più bello, mentre le voci del pubblico pagante si interpellano sul finale. Fa pipì, Adelaide, è una di quelle urgenze della mattina assolutamente da soddisfare, prima che le sue mutandine non più per infanti (altro che, eh) rimpiangano il pannolino e le premure di sua madre. Prova una sensazione strana, simile a quella di un addio, e un po' si stupisce delle sue malinconie improvvise. Si stupisce di ricominciare a provare, nella maniera più pulita che conosca, emozioni così forti, così oneste, così meravigliosamente patetiche. Si stupisce di aver pensato che uno sguardo bastasse a stravolgere la sua vita. Si sorprende di aver dato baci così generosi, pensando "eccomi, sono tua. Eccoti, sei tutto quello di cui ho bisogno". E niente, fa colazione, yogurt e cereali, ricordando colazioni fatte di baci e premure. Ripensa al monologo teatrale e un po' si intimidisce: non ha potuto ascoltarne il finale. Lo avrebbe domandato, se davvero fosse stata in quella platea, con gli occhi bassi e quella timidezza che è necessaria in certe occasioni, avrebbe chiesto: "ei, signora dai capelli neri, come si resiste a certi occhi?", avrebbe detto "ei, signora un po' confusa, come si definisce quello che prova?". Ma Adelaide non è in quella platea, tutt'altro. Vede dalla sua finestra appena socchiusa scorci periferici di Roma, si tocca le labbra, pensa alle sue, e si stupisce, dio se si stupisce, di quello che prova. Immagina rotte da seguire e storie oltreoceano da raggiungere. Eh già, perché quegli occhi vivono solo dall'altra parte del mondo. E cosa sarà mai il mondo, quando per una vita, in tutto il mondo, non ha incrociato mai occhi vispi e belli come i suoi? Cosa sarà mai l'incertezza di un finale, quando di incertezze Adelaide vive? Si pettina i capelli, potrebbe farlo per ore, ed ascolta a tutto volume canzoni di altri tempi. È libera, Adelaide, e nello stesso tempo si sente sotto osservazione, come quella donna a teatro. Libera di sceglire di provare, per una volta almeno, un sentimento così pulito. In gabbia, talvolta, una gabbia che si chiama "distanza". All'imbrunire, Adelaide si addormenta sui ricordi. Si sveglia ancora una volta sul più bello, quando l'attrice confusa che così tanto le somiglia si interrompe e chiede: "Adelaide, come si resiste a certi occhi? Adelaide, come si definisce quello che prova?". Tocca a lei dirlo. Tocca a lei saperlo.

"Ebbene, signori e signore, è successo: in un angolo di Roma, in una notte di Settembre, il suo addio è stato il nostro inizio. (...) Di favole a lieto fine e un sentimento così bello che a raccontarlo, signori e signore, vale solo la metà".

E dorme Adelaide, aspettando il suo ritorno, in questa meravigliosa sorniona città.



(Va be', sogna poi parcogiochi e caramelle. Sogna i suoi sogni da bambina, liquirizia, palloncini, marmellate all'arancia e aquiloni. Poi sul più bello, quasi a sminuire tutto ciò che ha appena fatto e detto, ehm, sogna il suo amante, il suo amore di sempre, goloso e attraente. Brama, sogna, osanna,



il MARITOZZO ALLA PANNA.


E al risveglio, signore e signori, se lo magna).





venerdì 12 agosto 2016

Non soffro di insonnia (impiego di neuroni previsto 2)

Io non ho mai sofferto di insonnia, e questo è un fatto. Ho scritto molto di notte, ma non perché insonne, solo perché di notte non mi vede nessuno. Io, che mi chiamo Adelaide, e tra pochi mesi compio 29 anni, sono sempre stata una brava bambina, poi una brava ragazza, ora una brava donnina. Non ho particolari colpe da rimproverarmi, e nemmeno grandi meriti da riconoscermi. Ci sono, esisto, ed esisto discretamente. Ho letto molto nella vita, leggo ancora, scrivo altrettanto. E non ho mai pensato che ci fosse al mondo qualcosa di più bello. Un giorno di molti anni fa, alle giostre, sentii un padre che diceva sotto voce ad una madre: l'unica cosa che mi auguro è che mio figlio abbia una passione. Io ho una passione, e so, in qualche modo, che mio padre ne sarebbe felice. Ne ho più di una: i libri, sì, e la scrittura, pure; ma le macchine fotografiche, i rollerblade, la cucina, gli orologi da taschino, la poesia, la campagna, il profumo di mia madre. I sorrisi. Mi piacciono le persone a loro volta appassionate, mi piacciono l'inverno, le mani, la musica alta in macchina. Mi piace il cioccolato, il vino, la liquirizia. L'ultima sigaretta risale a quasi quattro mesi fa, ma resta una passione. Ora ho tutto questo, ancora, qui davanti. Non ho più malattie "croniche", questo mi consola. Ma non ho avuto passioni per molti giorni: una bolla di tempo sospesa nel mondo - lo stare al mondo per ritornarci, un giorno, davvero - , uno spazio ignorato, una lotta invisibile, la mia. Sono stata ricoverata per un lunghissimointerminabile mese e mezzo per una malattia che si crede rara e che nonostante questo ha colpito proprio me, la brava donnina con tante passioni e i sonni tranquilli. Sto affrontando una cura che dovrebbe portarmi alla guarigione assoluta, ma che per il momento non porta che effetti collaterali. Sono felice, nel frattempo, di vedere il mondo. Sorrido, ora, di questa macchina irrefrenabile che è questa città. Sorrido del mio metro e sessantatre, dei miei chili in più, della mia singletudine, della mia eterna attesa di qualcosa di migliore, sorrido anche di tutto il peggiore. 


Sorrido, poco mi importa. 
Io sorrido e non soffro di insonnia.





mercoledì 27 aprile 2016

120 km/h (impiego di neuroni previsto: 3)

Adelaide si raccoglie i capelli, guardandosi bene da occhi indiscreti. Non li lega mai, li tiene sciolti e  li pettina due volte al giorno almeno, velocemente ma amorevolmente. Si raccoglie i capelli perché sta per inalare vapori di spezie fino ad oggi sconosciute: da un po' di mesi a questa parte soffre di un mal di gola cronico che le sta lentamente cambiando la vita. Lavora in biblioteca da sei mesi, e purtroppo solo per altri sei mesi. Vive tra i libri, lei che ama l'inchiostro e l'odore della carta, lavora tra la letteratura, proprio lei che lo aveva sempre e solo sognato. Non solo per il fatto di poter disporre, in qualsiasi momento, di qualsiasi scritto (o quasi). Non solo per il fatto di condividere con chiunque spazi inimmaginati e lingue sconosciute. Non già perché dà sfogo alla sua insaziabile curiosità. In biblioteca vige un ordine rigidissimo, e al di là di quell'ordine vive un grande caos: milioni di storie, delle più disparate, prendono vita, si intrecciano, si librano, invisibili, in quello spazio fisico che, di veramente fisico, ha solo i libri. Lì, e solo lì, non solo quelle storie sono di tutti, di qualunque classe sociale e etnia, ma raccontano qualsiasi evento. Solo in biblioteca tutto può accadere e tutto, in un modo o nell'altro, avviene. Così, in questo periodo di grande stress psicofisico, Adelaide ha una casa, un rifugio, un approdo, dove poter godere di tutto quello che nella sua vita non sta accadendo, regalarne una parte ad altri, mettere la propria cultura al servizio di tutti. Ecco, in un mondo così, se solo esistesse davvero, Adelaide vivrebbe bene con qualunque patologia cronicizzata. È il resto, l'intorno, questo caos di gente arrabbiata e frettolosa che la mattina esce di casa con l'ascia in mano e prende tutti i mezzi di trasporto che prende Adelaide, è questo, quello che non va. E vorrebbe dirlo a tutti, Adelaide, di approfittare di quel viaggio insieme per raccontarsi e raccontare vite, aneddoti, per raccontare un libro letto, una poesia ancora da scartare, un film di altri tempi. La città corre e Adelaide vive a 120 km/h, in una fretta che non le somiglia, dietro finestrini sporchi di troppo smog, in viaggio, ogni mattina per un'ora e mezza, con persone che non sanno che, oltre quella metro e quella città in fermento, esistono luoghi dove il tempo, la fretta e lo spazio davvero non esistono. Luoghi di carta, in mezzo a palazzi di cemento armato. Edifici spesso anonimi, con all'interno mondi e parole del tutto inaspettati. Castelli in pieno centro e favole verosimili, una vita a 2 km/h capace di vivere tutte le vite possibili, in tutti i modi possibili. E impossibili.

(Adelaide sa che tutto questo finirà. Si guarda intorno, soddisfatta, mentre prende l'autobus per andare al lavoro. Sa già che avrà gomiti in faccia e scippatori improvvisati da evitare. Sa tutto, ma si consola pensando alla meta. E sale, e viaggia schiacciata sulla portiera del bus, ma la sua mente è già al prossimo libro, alla prossima avventura, alla prossima vita a 2 km all'ora).

martedì 5 gennaio 2016

Manuale emotivo (impiego di neuroni previsto: 0,2)

Manuale emotivo. Capitolo I.
Se lo lasci andare, lui tornerà. Trattalo con sufficienza, dimentica di chiamarlo, vivi la tua vita come se lui non fosse che un di più, completamente assente dalla tua fittissima agenda. Si sentirà trascurato e tornerà. BALLE.
Manuale emotivo. Capitolo II.
Occupati della tua vita, cura la tua persona, coltiva i tuoi interessi, sii appagata e felice da sola. Gli uomini adorano le donne intrapendenti e indipendenti, e da loro ritornano. BALLE.
Manuale emotivo. Capitolo III.
Non essere invadente, concedigli tutti i suoi spazi, in questo modo non si sentirà in gabbia e vedrà in te un luogo in cui trovare serenità. BALLE.
Manuale emotivo. Capitolo IV.
Se durante il sesso ti dice esattamente quello che vuoi sentirti dire forse è proprio l'uomo giusto per te. BALLE.
Manuale emotivo. Capitolo V.
Se dopo il sesso ti coccola e ti bacia come se fossi la donna più bella e dolce del mondo forse per lui non sei solo sesso. BALLE.
Manuale emotivo. Capitolo VI.
Se il giorno dopo non rompe il silenzio nemmeno sotto tortura, è un timido, probabilmente già innamorato di te, che ha paura di una batosta. BALLISSIME.

Se lo lasci andare, il passerotto vola. Se pensi esclusivamente alla tua persona, nessun uomo crederà alla balla che potrai prenderti cura di lui come faceva la sua mammina. Se gli concedi tutti i suoi spazi, semplicemente lui se li prenderà e ci sguazzerà dentro. Se durante il sesso ti dice quello che vuoi sentirti dire è solo perché sa che vuoi sentirtelo dire. Se dopo il sesso ti coccola è per assicurarsi una prossima volta. Se il giorno dopo non rompe il silenzio, non è timido, non vive in un bunker, non ha perso improvvisamente il dono della parola. Semplicemente non ti fila. Semplicemente tu sei solo sesso. Semplicemente, mentre tu sei a casa sul tuo letto avviando una serie sconfinata di elucubrazioni mentali dal dubbio carattere scientifico, lui sta giocando a FIFA con il suo amico immaginario, in mutande, con una birra sul tavolo e con quell'espressione facciale che, se lo vedessi, non esiteresti a dimenticarlo.

Perché una storia di sesso resta una storia di sesso, anche dopo anni, soprattutto dopo anni. Perché se ci fosse qualcos'altro si sarebbe rivelato, condannandoti e condannandolo a non poterne fare a meno. No, bambina consenziente, sei solo sesso. La scelta è tua: accontentarti di ciò che hai, o perdere tutto per avere di meglio.

Adelaide sorseggia un bicchiere di vino e si sorprende di come la sera stia calando velocemente. È stanca, Adelaide, di questi vuoti a perdere continui. Si sente in gabbia, talvolta, una gabbia fatta di troppa libertà. E si pettina i capelli, mette dello smalto, legge mille libri e scrive, scrive senza freni: per lei è questo prendersi cura di sé. E lo ha capito, Adelaide, che quelle del manuale son tutte bugie, eh. Si veste in fretta, chiude la porta alle sue spalle, e "sì, sì.. è timido" borbotta tra sé.

Ma son tutte bugie, eh.

martedì 10 novembre 2015

ilbimbino (impiego di neuroni previsto: 3)

Se c'è una cosa che Adelaide rimpiange dei suoi giorni da bambina è il momento in cui la sua mamma e il suo papà le facevano fare la doccia, sul finire del giorno. Le asciugavano la pelle al tepore del caminetto acceso. Le cospargevano il corpo di una polvere che lei credeva magica. Quando, poco dopo, si infilava sotto le coperte provava una sensazione di pulito che a raccontarla, ha sempre pensato, vale solo la metà. Era una di quelle emozioni che solo chi ha nostalgia dell'amore di una famiglia serena può capire. Come un'equazione che risulta perfettamente. Come la più dolce delle carezze e il più capiente degli abbracci.

Ci ho pensato oggi, mentre ero sull'autobus in direzione posto di lavoro. Un autobus sottovuoto, stracolmo di gente stressata e probabilmente per questo infelice. Un autobus dal quale sono scesa prima del dovuto, a causa dello spazio ristrettissimo concessomi. Tuttavia, ad un certo punto del viaggio, è salito sul mezzo un padre - 35 primavere ipotizzate- col suo bimbo di tre anni o poco meno tra le braccia, il quale, senza porsi nessun tipo di problema ha iniziato ad urlare "papààà! Mi voglio sedereee! Papààà! Mi voglio sedere! Papààà! Mi voglio sedere!". Mission impossible, bimbino, impossible. Ecco. Io ho pensato che quel bambino avesse ragione. E avrei voluto dirglielo: sì, bimbino, hai ragione. Ed urlare insieme a lui "papàdelbimbinoooooo! Mi voglio sedere!", e urlarlo sempre più forte, più forte e più forte. E sssì, cacchio, noi ci vogliamo sedere. La voce seriosa del padre spezza d'un tratto il sentimento di rivolta che io e ilbimbino proviamo: "e dove ti siedi appppapà? Non c'è posto." Ecco, ilbimbino, non c'è posto. Cavoletto, ilbimbino, non c'è posto. Mannaggia la paperella, ilbimbino, non c'è uno straccio di posto. Ed è così che sarà, ilbimbino, non ci sarà mai posto. Non ci sarà il treno nell'orario che speravi. Non ci sarà ogni giorno il sole, non ci saranno caramelle buone, non ci saranno sempre belle coincidenze, non ci sarà Natale con la neve, né le sorprese al tuo compleanno. Sai, a volte altro che posto a sedere, non passerà nemmeno l'autobus! Eppure, ilbimbino, io voglio urlarlo con te, io voglio partecipare a questa rivolta del martedì mattina in pieno centro, e riuscire ad immaginare taaaaaaanti posti a sedere. Posti a sedere per tutti.
Perché sarai grande, ilbimbino, ed avrai così tanto bisogno di conforto, a volte, da ritrovarti a rimpiangere il piacere di una doccia da bimbino. E tutto quello che conterà non sarà cosa non c'è o non c'è stato, ma esattamente tutto ciò che hai avuto.

Adelaide tira su le coperte e desidera più di ogni altra cosa la doccia, il caminetto e la polvere magica. Si addormenta proprio mentre urla a gran voce: papààà! Voglio la doccia! Papàà! Voglio il caminetto! Papààà! Voglio la polvere magica! E sa, dio, se lo sa, che tutto questo non tornerà.

venerdì 23 ottobre 2015

Bicchiere a metà (impiego di neuroni previsto: 6)

Il primo passo verso la guarigione è la consapevolezza: bene, peccato che io sia affetta da questa malattia e allo stesso tempo consapevole di esserlo praticamente da sempre. Dunque, sono ferma al primo passo da una vita.
Il secondo - dicono - è imparare a prendersi cura di sé.  Ammetto di non averlo sempre fatto e di aver spesso dato priorità alle eaigenze altrui, mordendomi la coda. Un circolo vizioso che non conosceva freno, e ruotava, ruotava, ruotava. Ma da qualche tempo - e lo affermo presa da un sentimento di gioia che è misto a taaaanta, tanta soddisfazione - io mi prendo cura di me: coltivo le mie passioni, mi do da fare per crearmi un futuro, sono a dieta, curo i miei capelli come mai prima di oggi - a tal proposito, Adelaide ci tiene a consigliare a tutto il mondo prodotti biologicissimi, ché la chimica è certo nemica della salute -.
Insomma, forse il secondo passo è compiuto.
Ed ecco il terzo passo - che mi sembra di gran lunga il più assurdo -: inizia a vedere il bicchiere mezzo pieno. A parte che Adelaide il bicchiere mezzo pieno se lo scola, mi sembra assurdo si possa porre la cosa come fosse una mera istruzione, da compiere affinché - sì, amici che ci seguite da casa - tutto si risolva magicamente. Ebbene, io il bicchiere mezzo pieno non l'ho mai visto e non credo riuscirò,  dall'oggi al domani, a farlo.
È per questo che il quarto passo non ho neanche voluto leggerlo. Io sono ferma al secondo.
La chiamano SINDROME DA ABBANDONO e cozza terribilmente col mio orgoglio femminilissimo. E già che la chiamino SINDROME, qualcosa mi puzza. Tuttavia l'ho ammesso, io, di essere malata. Riconducono la "malattia" ai più disparati avvenimenti vissuti da bambini, primo fra tutti la perdita di un genitore, che in qualche modo traumatizza la persona in modo quasi irreparabile e semina il terreno sul quale si costruirà la personalità del cosiddetto "soggetto". Da qui la paura di perdere qualunque cosa - persone, momenti, luoghi, oggetti - possa donare felicità.  Ecco, io ho perso mio padre all'età di quattordici anni, è vero. E certamente la sua perdita è stata quanto di più doloroso e straziante io abbia mai provato - un vuoto che non c'era e che ora c'è e ci sarà per sempre -. La terra è mancata sotto le suole, e c'è voluto tempo - ce ne vuole ancora - e c'è voluta tanta forza. E sì, ho pensato a lungo che la vita facesse schifo, ho pianto molto, ho conosciuto stati d'ansia che i miei coetanei, la maggioranza di loro, nob sapevano neanche cosa fossero. Ho perso tutto, all'improvviso, nel pieno del mio sorriso migliore. Ma questo non basta a spiegarmi questa fottutissima paura. E no, perché è vero che ho perso un padre, ma è altrettanto vero che ho avuto accanto - a combattere al mio fianco lo stesso dolore - persone che mai,mai ,mai mi lasceranno. La certezza che, ovunque io sia, loro ci saranno - tendermi la mano, chiedermi la mano -.
E allora no, mi dico, no. Non mi basta la pseudogiustificazione che "sì, poverina, ha perso il padre da ragazzina...". Zitti, ddiomio, zitti. Si vive, si ride, si guarda avanti. Si ha paura, anche, a volte. Ma si vive.
Dalla mia malattia ho imparato che non importa quante possibilità ci sono che una persona vada via da te. Quello che importa è essere preparati al momento in cui questo avverrà.  Purtroppo, spesso mi preparo troppo presto.
Mio padre è morto, ma è qui con me: nelle mie pagine, nei miei discorsi,  nei miei libri, nel mio cuore. Sono altre le persone che sono andate via senza lasciare traccia: amanti di ieri, amici rubati, sorrisi mancati. È questa la mia malattia. È di questo che ho paura: l'assenza,  sì, ma quella vera, quella totale, quella in cui io non conservo ricordo alcuno, quella del tempo sprecato.
Il primo passo verso la guarigione è la consapevolezza.


(Adelaide tace, per una volta almeno, e si sofferma ancora su un'unica frase: bicchiere a metà. Si dice che di tutte le bellezze la più bella sia la verità. E la verità di Adelaide non è che quel bicchiere a metà, niente proprio niente di più:

glùglùglù)








martedì 6 gennaio 2015

Cara Befana (epistole all'arancia) - impiego di neuroni previsto: 2 -

E allora stanotte arriverà la Befana, calandosi come ogni anno dalla canna fumaria, spazzando via la fuliggine, impolverando la vecchia cucina di cenere. E sulla sua scopa si reggerà, appendendo alla cappa una o più calze ricche di leccornie e carbone. Lo porterà - mi dico -, ne porterà di carbone. Io sarò nella mia camera color arancione, a sognare di palloncini e leccalecca all'arancia, sotto un piumone caldo - e dello stesso colore - a (ri)posare i pensieri sul cuscino a pois.
E allora quest'anno - come ogni anno, mi dico - è arrivato un nuovo anno, senza passare dalla canna fumaria né dalla porta, ché il tempo, si sa, è maleducato. E' entrato, da questa o quell'altra finestra, ed ha già cambiato il calendario. Appeso alla parete come un quadro immutabile, eppure mutato. Io alla Befana non ho mai scritto lettere, ché quelle, da che mondo è mondo, son per Babbo Natale. Potere alle donne! penso tra me e me e, impugnando una penna porpora, scrivo:

[momento patetico = ON]

Cara Befana,
non ti ho mai scritto lettere e non credo te ne scriverò mai più un'altra. Ma, cara Befana, quest'anno mi affido a te, ché quel Babbo Natale è tanto buono a chiudere l'anno ma non pensa mai al venturo. E il venturo è di certo quello che mi preoccupa di più. Quando entrerai dentro questa casa - che è la mia casa d'infanzia, dove ancora vive la mia bella mammina - sta attenta alla cenere, se vuoi riposa sul divano, togli le scarpe, stenditi e goditi il silenzio. Non appendere calze, a meno che dentro non ci sia un po' di pace e di serenità. Qui, di leccornie, son piene le dispense. E pure di amore, ce n'è in eccedenza. Ma la pace, la vera pace, un po' manca. Cara Befana, quando volerai su questo tetto, getta una stella sulla mia casa, fai che illumini i giorni a venire, fai che ci guidi, fai che ci protegga.

[momento patetico = OFF]

Accanto al camino, guardando in direzione della porta d'entrata, il fuoco si riflette sul marmo. Sono effetti speciali di questa notte incantata e mostruosa, esattamente com'è stato l'anno passato. Accanto all'anno passato, in direzione del futuro, l'anno venturo si riflette sul calendario. Sarà facile, Befana, gettare la polverina magica sui giorni! E allora quest'anno, come ogni anno, ti calerai dalla canna fumaria senza far rumore - ed io emozionata sognerò di parcogiochi e caramelle -, e come ogni anno tu te ne andrai, e come ogni anno poi ritornerai. Perché tu, almeno tu, di quell'infanzia fatta di meraviglia e stupore, torni.

P.S. Tante volte ti sfuggisse un leccalecca all'arancia, mentre spargi polverina magica qui, non preoccuparti, ci penso mì.

venerdì 15 novembre 2013

Griffonia, mon amour (impiego di neuroni previsto: 1)

Che dire. La griffonia ha proprietà inimmaginate, un po' come ne ha lo sport, le docce calde in estate, il caffè appena svegli, le abbuffate di cioccolato. Per non parlare della vitamina B, che cerca in qualche modo di vedersela con il sistema nervoso. Povera. Diciamo che il sorriso in questi giorni regna sovrano, che sia per merito della vitamina, della griffonia, dell'inverno, dell'amore, delle stelle, chi lo sa. Ebbene, le stelle oggi annunciamo il meglio: pare che i problemi avranno facile risoluzione, il che mi fa riflettere sul fatto che allora ci saranno dei problemi, dunque ''il meglio'' non pare l'espressione più adatta. Le stelle, inoltre, confermano che c'è l'amore. E questo pure mi pareva di saperlo già prima di leggerlo, 'sto oroscopo, e di saperlo bene. Ed effettivamente è la collocazione ad essere sbagliata. Ecco, mi spiego meglio. La mattina Adelaide legge un quotidiano, sempre lo stesso, all'interno del quale, solo dopo millemila notizie, trova e legge l'oroscopo. All'ultima pagina. Inutile sottolineare che giunti lì ci si è svegliati già da un pezzo, e tutte le riflessioni esistenziali (tipo: che ne sarà della mia vita, morirò un giorno, cosa sto facendo, ingrasserò ancora, troverò mai un lavoro e blablabla) le si è fatte già da un pezzo. E il malumore ha preso piede già. Il consiglio è di inserirlo non in prima ma in seconda pagina, ecco, affinché tutti i mali del mondo, oltre quelli strettamente personali, siano quantomeno affrontabili. Perché l'oroscopo ha sempre un certo non so che di speranzoso, o di illusorio, ma va là.

(Alle brutte brutte brutte, griffonia in quantità).

martedì 23 aprile 2013

Che differenza vuoi che faccia (impiego di neuroni previsto: 2)

Scritto il 20.11.2012, e oggi riproposto, ché pure la carta straccia ha il suo prezzo e il suo valore.

Mercatino in piazza. Il banco lì all'angolo vende articoli per la casa a un euro, uno soltanto, che vuoi che sia. La signora del piano di sopra, in uno dei nostri tanti incontri in ascensore, mi dice di aver acquistato un apribottiglie proprio lì, che è durato il tempo di portarlo a casa e di stappare una sola bottiglia di vino. Il problema è che il seguito non lo ricorda, si è svegliata la mattina dopo ed ha trovato l'apribottiglie rotto, punto. Secondo me era ubriaca. E gliel'ho detto, eh, sommessamente, discretamente, col sorriso parafondelli che è tipico di chi no, non si permetterebbe maaai di insinuare nulla. Era ubriaca. Ed ero ubriaca io mille volte, e mille ancora, in quelle serate che non avevano senso alcuno, ritmate da una musica inascoltabile, e da gambe che son belle da guardare, sì, ma che non vorresti avere mai come compagne di viaggio. Poi ci son state le serate romane, quelle che pure ricordo a stento, ma che erano belle, dense di vita, di allegria, di voglia di vivere e cantare. A casa ti portavi l'odore di smog, che tanto, misto a quello di fumo di sigaretta, è solo un deodorante peggiore. E l'ebbrezza, quella vera, quella totale. Portavo a casa l'amore, o lì lo trovavo. E durava il tempo di una notte, o il tempo di anni e anni. Ma che differenza vuoi che faccia. 
A un euro anche le mollette per stendere i panni, che peraltro ho sempre trovato fastidiosissime. Sì, quell'incisione inguardabile che lasciano sui vestiti, ad esempio. Va be' che non ho mai stirato nulla, e non saranno certo le mollette a farmi cambiare idea. Però ad un euro si compra tutto, un euro soltanto, che vuoi che sia. E pure quelle mollette si rompono che è una bellezza. Ma tanto c'è il banchetto al mercatino dell'usato, quello lì, che le vende ad un euro soltanto. Si romperanno di nuovo, ed io le comprerò di nuovo, affetta da una patologia denominabile(?) recidività compulsiva. Si romperanno ancora, le acquisterò ancora. Che poi spendere il doppio o il triplo o cinque euro non è mica una garanzia, né per gli apribottiglie né per le mollette corredate di cestino. Si romperanno lo stesso, diverranno inservibili in più tempo, ma non saranno mai eterne. E' che la banalità del secolo è che il prezzo non è il valore delle cose, ecco. E sì che lo è, certo che lo è, come se lo è! E si faranno mille acquisti, e mille ancora, e ognuno di questi subirà un destino crudele. Ahhh, povere vecchie mollette! E i sogni, quelli pure costano, e i sorrisi, e le scommesse, i viaggi, le sorprese. Mai che ci sia uno sconto, su 'sta roba qui.

Ah! ...e l'amore, pure quello str**zo lì.

sabato 16 febbraio 2013

Ci sei (o ci fai?) - impiego di neuroni previsto 1,1 -

 
E sul tram non è che si fanno solo brutti incontri, eh. Tipo quello con l'alito da cammello, quello con le ascelle putride e ancora quello che non è che lo fa apposta, eh, ma ti palpeggia. Sul tram si vede la gente, viva, assonnata, frettolosa, in ritardo, in cravatta, in gonna corta, sorridente, incazzata nera. Senza parlare delle Donnatacco. Quelle sono il top: l'ultimo sedile che è il loro, il cambio della scarpa in tempi record, l'espressione di sollievo - accompagnata da un "ohh..!" peraltro -, fanno di loro un'attrattiva: come la torre di Pisa a Pisa, la Donnatacco sul tram. E poi non è che sul tram si fanno solo brutti pensieri, tipo che piuttosto che stare accanto al tizio con l'ascella radioattiva preferiresti il disequilibrio sul burrone più alto del mondo. La osservi, la gente - lo fai sempre, Adelaide, dalla finestra, di mattina, quando tutti sanno dove andare e tu ancora ti domandi SE andare -, e un po' ti ci rivedi. Negli occhi di quella donna anziana, al primo sedile, con la gonna nera a fiori beige, la busta della spesa sulle gambe e l'aria rassegnata di chi le battaglie le ha già tutte affrontate. Nelle treccine della bambina appena uscita da scuola, mano per mano al papà, a chiedere ancora una volta "papà, ma perché......?" - e il padre a sorriderle di quanto è buffa -. Nel ragazzo coi capelli a spazzola, quello col cellulare megaultraiperfunzionale, quello con le cuffie e l'aria da burlone. O nella donna in quarta fila: un libro in una mano, l'altra chiusa a pugno sulla faccia. Ti ci ritrovi.Alle otto del mattino, quando non c'è spazio che per l'aria, poca, e per gli sbadigli. E poi dal tram vedi la città: quell'enorme palcoscenico dei tempi moderni, col suo sipario di luci, il pubblico che è anche attore e gli applausi che son sordi, eppure ci sono. E allora se per percorrere duecento metri impieghi un quarto d'ora che fa. L'odore di smog confonde i respiri, quelli della scarsa igiene della gente fa quasi svenire, ma ci sei. Ci sei. E stai per svenire, sì, ma ci sei. Osservi e ci sei. Respiri, ci sei. Le persone come maschere della tua stessa farsa, la corsa del tram come quella della tua vita, Adelaide. Sapere dove stai andando senza sapere se è davvero ciò che vuoi. Vedere, in quell'attimo prima di scendere, la tua immagine riflessa sul finestrino e domandarti chi è, quella giovane donna che ti guarda. Scoprire, come un'epifania, che osservarti ti costa più fatica che mai. Perdere così tanto tempo a guardare l'altro, senza guardarti mai. E' che sei distratta, Adelaide, l'ho sempre detto. Sei distratta e perdi di vista i tuoi obiettivi, le tue mete, i tuoi traguardi. Ti perdi in riflessioni fuorvianti, ti butti e poi subito dopo ti estranei completamente dalla realtà.
 
Oh cacchio, dovevo scendere due fermate fa!
 
E che vuoi farci, Adelaide, se sei questa qua.

venerdì 11 gennaio 2013

Panna, la cura, la fine, o come dir si voglia (impiego di neuroni previsto: 2,5)

C'è un tipo, a poche centinaia di metri da casa mia, che fa il pasticciere. Ed è bravo, senza ombra di dubbio. La panna è il suo mestiere, le relazioni con il pubblico sono roba da dipendenti, i prezzi alti, l'ambiente niente di speciale. Lui ha la cura per ogni male. Lui, e lui solo e soltanto, sa porre rimedio al malessere. Non l'ho mai visto in volto, e non è questa la mia curiosità. Al contrario, son curiosa di sapere cosa pensi lui della sua panna: se la mangia, se lo annoia, se non è che un guadagno. Non so, mia madre è un talento del panettone, ad esempio: tutti lo vogliono, tutti lo chiedono, tutti ne mangiano in quantità industriali. Io no. Saranno vent'anni che non ne mangio un po'. E' lì, invitante e profumato, e resta lì. Se non avessi la possibilità di mangiarne un po', lo desidererei ardentemente. La questione è roba vecchia, vale a dire che una cosa desiderata è migliore di una avuta. Lo diceva Leopardi, parlando di un cavallo, che il desiderio è piacere quando è solo desiderio, e che l'avere è già una condizione diversa, priva di una qualche bellezza che è propria solo dell'ambìto. Ed io a quattordici anni su 'sta frase c'ho costruito castelli e cittadine intere, convincendomi a smorzare i desideri, a placarli, a indirizzarli verso il binario giusto: la consapevolezza. Della fine, innanzitutto. Della capacità di persuasione delle persone e/o delle situazioni. Del "è meglio aver paura che rischiare". Poi, inevitabilmente, ho sempre rischiato: punto tutto sul rosso, male che vada avrò desiderato la buona sorte. E a volte è arrivata, eh, attraente come una bella donna, ammaliante, carismatica. E' arrivata e se n'è andata, d'un tratto, come se nulla fosse stato mai. E allora a cosa serviva rischiare, giocare e ottenere, se quello che mi aspettava sarebbe stata comunque una disfatta, una privazione, un furto? Disillusa, Adelaide, fino a non provarci più. Però c'era la panna del mio caro pasticciere, c'era e c'è, a tirarmi su. Si sbagliano i tempi, nella maggior parte dei casi. Le persone. L'imporsi una conoscenza perché è ora che la si faccia. L'imporsi una non conoscenza perché non è proprio l'ora di farla. Sono stata desiderio per qualcuno, a volte ho desiderato fino a rinunciare: la teoria del piacere che si rivelava, proprio quando non hai la lucidità necessaria affinché si palesi anche alla ragione. No, non ne hai. Hai - costante e insistente - voglia di liquirizia, di cioccolato al latte, di fare un giro in macchina cantando la più sciocca delle canzoni, spegnendo i fari alla curva meno pericolosa, lampeggiando alle macchine come in una sorta di operazione peace and love. Hai voglia di far l'amore, di svegliarti nuda in un letto in cui ti senti bene, accanto a braccia che non siano di troppo, che tocchino le tue come fossero sempre desiderio e mai piacere. Voglia di vino buono, che riesca a raccontare e a farti raccontare di storie e sensazioni finora inespresse. Hai voglia di essere un sorriso, un profumo, poche parole e baci. Patetica come mai da un po' di tempo a questa parte, ma attenta e consapevole. Sarebbe coerente, nonché logico, dire che hai voglia di un'altra fine. Pur di vivere ciò che verrà, se verrà, quando verrà.

E poi hai voglia di panna, Adelaide, di' la verità.

GNAM!

venerdì 14 dicembre 2012

Il tempo non esiste (impiego di neuroni previsto: 1,5)

Allora io, una giustificazione alla mia affermazione costante "IL TEMPO NON ESISTE" devo pur trovarla. Non so, a me sembra così naturale concepire il fatto che non c'è, non esiste in natura. E dunque non esiste la fretta, non esiste il ritardo, non esiste l'anticipo. Non esiste "se solo fossi arrivato un momento prima....", non esiste. Punto.

"Il tempo ti fotte sempre", dice A. in una delle nostre conversazioni insensate da pausa-studio. Il tempo ti fotte e tu vuoi esser fottuto/a, penso io senza dirlo. E non mi riferisco nello specifico ad A., è condizione insita nell'essere umano. Il tempo ti frega così astutamente che non fai in tempo a dire oh cacchio che già s'è fregato tutto: e allora succede che ti ritrovi, ad un punto della vita, senza niente. Niente che valga la pena di esser vissuto, niente per cui sia necessario provarci. Ti persuade, il tempo, a credere che di niente ti importi niente. Ecco, io l'ho vissuto questo. Ma mai totalmente, ché spesso penso che come ragione di vita sia sufficiente il sapore della liquirizia. (E questo è sempre stato il mio problema principale, dare alle cose sempre un valore, un'importanza, quantomeno per l'emozione che queste cose ti danno. Ecco. Venticinque anni e molta infantilità, quando mi accorgo che sono tutta un capriccio, che quello che voglio deve esser mio a tutti i costi, senza se e senza ma, mio, punto. Spesso senza dare nulla in cambio, se non un valore, astratto, ideale, ma pur sempre un valore). Il tempo ti fotte e tu vuoi esser fottuto. Sì, lo fai apposta, un po' perché scappi, un po' perché sei tristemente rassegnato. Il tempo ti frega quando ti accorgi improvvisamente di essere in ritardo con gli studi, con tutte le intenzioni di farti sentire incompetente, pigro, demotivato. E ce la fa, eh. Ma per fortuna a volte vince l'autostima. Poi succede che in un giorno qualunque, per un momento solo, breve e unico, il tempo sembra fermarsi. No, non sto parlando di morte o coma, o situazioni tragiche. Anzi, forse sì. Anche perché nella categoria "stop al tempo", generalmente al secondo posto, dopo la signora morte, c'è il momento in cui incontri la persona dei tuoi sogni: un'altra tragedia, la morte di te stesso. Ecco. Dico io, piantiamola. Non è vero che si ferma il tempo, sei solo tu che desideri che questo accada. Non è lui/lei la persona perfetta per te, è solo che ha scelto il giusto momento. Sei tu, con la tua snervante voglia di essere amata/o, che credi di amare. Sei tu. E il tempo, mai assopito, ad un certo punto ritorna e ti rifotte. Stop. Basta. Sveglia. E' finita. Ed è finita perché tu hai voluto che finisse. Però, per esempio, qualcuno si è mai posto il problema fondamentale dell'amore per sé stessi? Ecco, se uno ama sé stesso, il tempo non ti fotte. O almeno ti fotte di meno. Senza contare la consapevolezza che il tempo non esiste, che pure non dev'esser roba da scienziati. 

E che, se solo fossi arrivato un momento prima, non sarebbe stata neanche roba mia.

giovedì 6 dicembre 2012

Indovina chi (impiego di neuroni previsto: 2)

E. va in bagno per pochi minuti e mi lascia ad attenderla a gioco iniziato. Penso a quale domanda porle al suo ritorno e la tentazione di imbrogliare è forte. Non lo faccio. Non lo faccio e allora penso:

No, non mi piace l'ananas. Non mi piacciono i cani. Non sono una persona affidabile, né una di quelle persone sulle quali contare nel momento del bisogno. Sono costantemente assente, presa dalle mille ipotesi sul futuro che sistematicamente non si avvereranno. Non mi piacciono le arance. Odio l'odore degli agrumi tutti. Sopporto a stento le persone rassegnate, quelle più rassegnate di me, intendo. Ho una particolare attitudine per la solitudine e per l'alcolismo, senza contare le ripetute crisi di identità che spesso mi affliggono. Ho due blog, quattro o cinque nickname sparsi nel web. Soffro l'abbandono, lo soffro al punto che penso di esser stata abbandonata prima che mi abbandonino. Non sprizzo gioia da tutti i pori, no, sono discreta e silenziosa. Troppo, ma solo con chi conosco poco. Non amo in un uomo le mani magre, i denti larghi, la voce acuta. Non rispetto un orario che sia uno, e mi annoiano le persone puntuali. Adoro il sesso la mattina, il caffè tiepido, i complimenti sottintesi. Non mi piacciono le donne che seguono la moda, che ne fanno un comandamento, un'imposizione voluta. Ho un'intolleranza alimentare a qualche tipo di mollusco, ancora non ben identificato. Soffro il caldo, amo l'inverno. Il mio colore preferito è l'arancione. Quando avevo quattordici anni mio padre è morto causa malattia. Mi commuovo spesso, invento parole nuove. Adoro sfogliare il dizionario. Sono una ignorante in molti campi, compreso il mio. Mi piace far la doccia appena prima di dormire e confondere il mio odore con quello delle lenzuola pulite. Ho un rapporto pacifico con la morte, un po' meno con la vita. Amo le città di media grandezza, non troppo affollate, mediamente rumorose. Amo il francese, le cucine straniere ma non la cinese e nemmeno la giapponese. Mi piace il cinema coreano, o anni '60. Piango e rido insieme, almeno una volta al mese. Non mangio kiwi, metto solo smalto bordeaux, adoro le infradito. Sono costantemente in un periodo di riflessione, nel senso che rifletto assai. Mi piace scrivere, ma mi riesce male. Mi piace disegnare, ma mi riesce peggio. Ho una voglia immediatamente sotto il sopracciglio destro, un po' sfocata e al caffè. Una cicatrice sotto il mento. Porto un solo orecchino. E parlo sempre di me.

"Ha i baffi?"
La domanda improvvisa di E. mi ricorda che, in questo gioco di indovinare il personaggio - uno a caso, ritratto sulle caselle che ho davanti- non c'è il mio volto. E che non mi farebbe mai domande del genere, ecco. Però dovessi descrivermi, io sarei proprio così. Compresi i baffi. 
Abbasso le caselle giuste e corro a fare la ceretta, un'altra scusa per guardarmi in faccia e per guardare occhi negli occhi la realtà.

"E' Sam!"

Niente da fare, vinco sempre moi. 


giovedì 29 novembre 2012

OPS - le noie (impiego di neuroni previsto: 2,5)

Mi si perdonerà lo sproloquio, per nulla interessante e un po' noioso, ma ce l'avevo qui:

Poi mi pare di intuire che siamo un ammasso di deficienti. Giornalmente, eh, mica è un'illuminazione del momento. Mi siedo in un bar con l'amica di sempre -intelligente, carismatica, adorabile, una dei pochi esseri umani che non si può definire deficiente-, si siede accanto a noi un tale, L., trentadue-trentatré anni, proprietario del locale. Prima di sedersi con noi, parla. Cioè, mi spiego meglio: c'è una particolare applicazione per cellulari e/o simili immagino, che ti parla. Tu fai una domanda, o un'affermazione e una voce risponde. Ovvio che l'idea più gettonata sia quella di insultarla. Ovvio. Ed è ovvio -per una come me che ha un rapporto di dipendenza assoluta con la tecnologia ma che prova un amore più forte per lo scambio di idee ragionato, sensato o no, ma che ti faccia capire qualcosa di più, anche solo che siamo un ammasso di deficienti- che da un momento all'altro io mi aspettassi un cazzotto, uno schiaffo, un calcio in mezzo a, da parte della signorina che, al contrario, rispondeva: credo di non aver capito. Il database è scarso, o ricchissimo, ad ogni modo la parola tr*ia non aveva per lei alcun significato. Ho immaginato un bambino, di sei o sette anni che per caso sente una parola sconosciuta -un mondo nuovo, milioni di significati racchiusi in una intonazione e pochi grafemi- e si affretta a chiedere alla mamma "ma cosa significa?" Si informerà, assimilerà la parola e si troverà molti anni dopo a spiegarne il significato ad un altro bambino. La vocina nel telefono, si aggiorna. Cioè, quell'entità che pare avere pure un cervello, ma stupido, può, da un giorno all'altro, grazie ad un tuo particolare comando, imparare nuove cose. E allora immagino che, nel 2135, avrà imparato molto. E forse avranno trovato il modo di renderla visibile, la donnavoce. E, forse, qualcuno la farà entrare in casa, scambiando con lei convenevoli, come stai?, è brutto il tempo, eh?, per poi passare a "ma quanto sei bella, sembra ti abbiano disegnata" e "vorrei baciarti". Non so se la tecnologia sarà giunta a tanto, ma può darsi che facciano l'amore. E il giorno dopo chissà, forse non si sentiranno neanche più, come accade il più delle volte quando alla base di una conoscenza vi sono soltanto un ammasso di stupidi convenevoli. Va be', accade anche quando alla base c'è una conoscenza secolare, ma transeat. Non so, mi pare come se vi fosse un meccanismo inconscio, nelle menti umane, un meccanismo che fa sì che ci piaccia, al di fuori di ogni ragione plausibile, interagire con qualcuno che sia più stupido di noi, che non abbia gli stessi fili elettrici nel cervello, che non sappia articolare un discorso, renderlo efficace, denso di significato. Mi pare come si voglia, in un modo o nell'altro, dimostrare a sé stessi la propria superiorità. Oppure - e l'alternativa certamente non dà sollievo- si tratta di un tentativo di non sentirsi soli (immagino una donna ubriaca, sul finire della sua vita, sola su un divano a guardare un film con l'uomovoce). E se anche si trattasse soltanto di un modo diverso per ridere, divertirsi, cazzeggiare, mi deprime l'idea che ci serva questo. Ma una sana scivolata, un sederata per terra, di quelle che fanno il rimbombo, o una gaffe nel mezzo di un avvenimento importante, o, meglio ancora, una freddura acuta e intelligente, nel mezzo di un discorso semiserio? Questo è quello che a me fa ridere. Questo è quello che mi piace degli umani. Le loro debolezze, il loro continuo credersi altro da sé, l'ironia, quella sottile, quella che è perspicace e mai adeguata. Mi piace, poi, più che i bambini, la loro espressione - quel leggero inarcarsi delle sopracciglia, gli occhi rivolti in alto, la bocca un pochino aperta - mentre ti domandano "ma cos'è?" "cosa significa?" "ma perché?". C'è un universo, celato dietro quel momento. C'è il ricordo che quella spiegazione diventerà, c'è l'immaginazione attraverso la quale il bimbo afferrerà il concetto, c'è il processo attraverso cui quel concetto prenderà forma e suono. Mi fa paura l'idea che, per conoscere il perché di una cosa, quello stesso bambino non farà altro che digitare due lettere (son sempre due, ché la cronologia è un'assassina dell'intuizione, del fare, dell'immaginare, del ricercare) su di una tastiera. Che guarderà alle enciclopedie (sacre, sacre, sacre) come un reperto storico. L'odore della carta un odore mai registrato.

E che un giorno, forse, si troverà in un letto con la donnavoce fatta carne, a fare discorsi di un livello mai visto:
- sei bella -
-grazie-
-fa caldo-
-è estate-
-mi baci-
-ok-
-che fai nella vita-
-versione 4.3.1 di un database parlante, da poco scopo pure, eh-

OPS.

lunedì 26 novembre 2012

Affanfiori (impiego di neuroni previsto: 1)

La verità è che non faccio altro che mangiare, mangiare e mangiare. Non che lo faccia con disinvoltura, o senza sentirmi in colpa. Mi sento in colpa, ingrasso, e continuo a mangiare. Sto bene, sì, decisamente. Però sorge un problema, ultimamente: perché le canzoni, i film, i libri che ascolto, guardo e leggo non fanno altro che parlare di me? Dico io, pietà. Cioè, smettiamola un po' di mettere il dito nella piaga. Nel frattempo, quasi di risposta, mando a quel paese molte cose - sarà pure che è periodo di spostamenti e "problemi femminili", nonché periodo di compleanni, compreso il mio, il venticinquesimo, per l'esattezza -, e nel farlo, nel mandare a quel paese cose e/o persone, utilizzo un'espressione da me inventata (ebbene sì, l'ho inventata ioo!!), che mi fa illudere di non essere volgare e che mi fa pensare di non augurare del male a niente e nessuno, come una sorta di assoluzione implicita, senza peraltro aver commesso peccato:

-affanfiori alle canzoni tipo "ti è mai successo che.." Sì, mi è successo. E faccio di tutto per non ricordarlo. Quindi, ti prego, chiudi la bocca. Tappala. Canta altro, ché in tempi non sospetti eri pure bravino.
-affanfiori ai libri che raccontano di quella donna che pensa, pensa e pensa. Rimpiange. Si pente. Oppure si innamora follemente e alla fine se lo sposa pure. Ma affanfiori, sappi, Ragazzacheleggepersognare, che è proprio così: è solo un sogno. O un incubo, dipende dai punti di vista.
-affanfiori ai film, quelli che raccontano di quei personaggi complicati, problematici, che devono difendersi dalle sofferenze dell'amore e allora soffrono prima, mentre e dopo. Ma un sano personaggio taciturno, o allegro, spensierato, idiota pure, no?
-affanfiori ai rischi, a "se non ci provi non lo saprai mai", alle scommesse, alla paura dei rimpianti. Molto meglio, molto meglio i rimpianti che le sconfitte.
-affanfiori alle persone che riescono ad essere educate e formali pure con l'assassino del proprio fratello, che so. Sono le stesse che bevono solo acqua, che non si siedono mai se non a gambe accavallate, e che a letto son tutte schiappe. Tutte o quasi. Ehm. Ogni riferimento a cose o persone è puramente voluto.
- affanfiori agli aridi, di cuore, di tenerezza, di amore. Per colpa loro o di brutte esperienze, ma affanfiò pure a quelle. Ogni riferimento a cose o persone è proprio cercato, eh.
-affanfiori a quei libri che, invece, prendono proprio spunto dalla mia vita: ci saranno altre sfighe di cui parlare, no?
-affanfiori a quelli che scrivono libri e non sanno scrivere. Salvo considerare il fatto che ci sono molte star internazionali della musica che non azzeccano una nota che sia una. Ed in mezzo a loro c'è pure chi ha il suo talento, che non sarà l'intonazione, ma frutta fior di quattrini. E di sorrisi.
-affanfiori ai blog di scrittura (che so, quelli arancioni, malinconici, fatti di post monotematici e spremuti come le arance: se non riesci a scrivere, non farlo), o a quelli che ti fanno intravedere una personalità di cui ti innamori e disinnamori alla velocità della luce, ché quello che si scrive, tendenzialmente, è quello che manca, quello che non si è/ha.
-affanfiori ai mandarini, non ne sopporto l'odore, figuriamoci quanto è irritante quell'albero davanti casa pieno zeppo di palle arancio.
-affanfiori alle palle, ché se non le ho avute prima le ho avute poi ed è andato tutto comunque affanfiori.
-affanfiori ai contatori delle statistiche, ché se mi imparanoiavo prima, mò proprio ciaociao.
-affanfiori agli sms degli ex (che poi neanche ex sono, in realtà non sono mai stati nulla di concreto) improvvisi e pretestuosi. Lontano anni luce da me, sia chiaro.
-affanfiori alla nostalgia che ho di altre persone, che pure deve passare.
-affanfiori a tutto ciò che è passato.
-affanfiori alla passata.
-affanfiori a chi non parla mai in dialetto, n' sann' parla'.
-affanfiori al sesso, non tutto, eh. Gran parte.
-affanfiori a Roma, alle luci accese, al traffico alle 5 del mattino.
-affanfiori alle sue frasi. Che non dimenticherò mai.
-affanfiori alle facce belle. E pure a quelle brutte.
-affanfiori a tutto quello che adesso mi sfugge.
-affanfiori a te che fuggi.
-affanfiori a quel giorno di Settembre, al cioccolatino al caffé che mi regalò, alle mani che guardava (più belle delle sue io non le ho mai viste), al tipo che parlava al cellulare e ai suoi occhi che pure commentammo. A quel bacio che diceva di non sapere trattenere. A quel bacio che non sapevo trattenere. Al mal di testa che il pensiero di lui mi fa venire, alle parole strozzate in gola, al suo fottutissimo odore, al suo modo di guardarmi, alla sua voce, agli insulti che abbiamo evitato, alle attese inutili. Schifose. Affanfiori alle aspettative catastrofiche che ho perseguito e che non mi hanno deluso neanche un po'. Ma va. Ma dai. Non ci smentiamo mai, eh, non sia mai. 
Affanfiori a te, affanfiori a me, affanfiori a ioprendountè, affanfiori a quantoseibellate, affanfiori pure a mammamiaquantomimanchite.

Eppure sto bene, eh, mica mi lamento. Però vi prego, mondo, cantanti e cantautori tutti, registi e attori, scrittori e scribacchini, odori e puzze qualunque, voci ascoltate per caso, titoli di opere teatrali, manifesti per la strada, capolinea degli autobus, venditori ambulanti, venti di ogni provenienza ed impeto, supermercati, asfalto, muri e pareti tutte: la piantate o no di parlare di me, eh?

Però sto bene, eh, anche senza di te.

venerdì 16 novembre 2012

Detto questo (impiego di neuroni previsto: 2)

Assioma n.1 : Le delusioni sono direttamente proporzionali a quanto sei sfigato, punto.

Sfigato non nel senso di sfortunato, proprio quei soggetti privi di ogni attrattiva, repellenti insomma, ecco. Quelli sono il trionfo della delusione d'amore, il ritratto, la prova lampante che l'amore fa schifo. Sì, perché è lui a far schifo, non lo sfigato. Lo sfigato è sfigato, e non è colpa sua. Invece l'amore ci si impegna, si applica, ci mette tutto sé stesso, mette la veste del piacere, del sensazionale, del meraviglioso, e appena ti volti ti pugnala. L'amore è un criminale, insomma. E tutti - lo sfigato, miss italia (che è più sfigata dello sfigato, s'intenda), quell'attore in tv, lo scrittore sociopatico, il moralista di 'sta penna, il discotecaro per eccellenza, il viaggiatore sotuttoio-, tutti, proprio tutti, un ammasso di masochisti deficienti. Detto questo, e quindi chiarito il mio punto di vista sull'argomento, volto pagina. Cioè, aspetta, non che dia all'argomento poca importanza, eh. E' essenziale, vitale, così perfettamente indispensabile da sembrare disgustoso, a volte. Ma se ne può fare a meno, così come si può fare a meno di un miliardo e mezzo di cose nella vita: non so, il profumo ad esempio. Sì, il profumo. Basta del sapone, del deodorante, e l'odore della propria pelle è il miglior profumo che ci possa essere. Il pepe. Che aggiungerà pure quel pizzichetto di, ma la pietanza sarà buona lo stesso, garantito da me. Il correttore alle scuole elementari, quando dovevi cancellare l'errore e la linea d'inchiostro (terapeutica, peraltro) era esteticamente ripugnante per il tuo cuoricino ancora così pulito. Ma no, se ne poteva fare a meno. Il balsamo nei capelli, la lancetta dei secondi, lo smalto trasparente, le pagine bianche ad inizio e fine libro, l'ascensore nei palazzi a tre piani. Se ne può fare a meno. Detto questo, espresso un concetto (poco chiaro, sì, lo ammetto) su questo strano animale-criminale, volto pagina. Non che creda che l'amore faccia solo male, non che sia completamente disillusa, no. Ci ricasco sempre anch'io, pur consapevole di tutte 'ste robette qua. Sono masochista e deficiente anch'io, mica escludo nessuno. Esseri umani tutti, compresi i bambini, anche se loro son giustificati, ché son piccoli e ancora non possono capire. Non possono capire che ci saranno momenti nella vita in cui continueranno a non capire nulla, pur avendo raggiunto la maggiore età da un pezzo, perché qualcosa di terribilmente travolgente, assolutamente ipnotico, ha rapito il loro raziocinio. Ma non per sempre, bambini, non per sempre. Tornerà il lume della ragione, e la realtà presto farà capolino. Detto questo, e quindi chiarito il mio punto di vista sulle faccende d'amore degli umani tutti, volto pagina. E no. E' proprio questo il punto. La pagina si volta, il già letto diventa passato e il presente ricomincia a far da complice al criminale. Se c'è una verità, è che non si vive senza. E se c'è una galera è vivere senza.

Assioma n.2 : Lo scrivere d'amore è direttamente proporzionale al bisogno che ne avverti. Eh già.

lunedì 12 novembre 2012

Moralità degli umani (cap. I-VI) (impiego di neuroni previsto: 2)

Pensava, mentre sorseggiava il caffè:

Come inguaiare il venticinquesimo anno della propria vita in poche semplici mosse.
Adelaide termina una storia quinquennale con un ragazzo conosciuto al liceo: spero tu sia felice, ci sentiremo prima o poi e blablabla e tutte quelle cose là. Dopo otto mesi il tipo è diventato MARITO. Sì, marito di un'altra. Adelaide si rimbocca le maniche, dice a sé stessa che no, non è il caso di pensare al passato, che bisogna ricominciare, che quel che è stato è stato. Nel bel mezzo della storia con il tipo sopracitato, Adelaide ha conosciuto un uomo, Fabio: Fabio è tutto quello che lei immagina soltanto, che non ha mai visto, né toccato. E' fidanzata, e al capitolo II del manuale Moralità degli umani, anche detto Ipocrisia degli umani,c'è scritto a chiare lettere che, se hai un fidanzato, non esistono altri uomini sulla faccia della terra. Non esistono, senza vie di mezzo. Un mese prima di lasciare il sopracitato Maritodiun'altra, Adelaide incontra Fabio, in una serata d'estate qualunque, nella città più bella del mondo. Errore compiuto, Adelaide si fa un esame di coscienza e legge, al capitolo III di Moralità degli umani, che il pentimento è già una parziale assoluzione: allora quel bacio al binario 14, dato a quello sconosciuto che le sembrava così conosciuto, è già perdonato. I sensi di colpa si trasformano, diventano bugie da dire a Fabio, ché a casa (o quasi) c'è chi la aspetta: quello che poi sarebbe diventato Maritodiun'altra, per intenderci. Un mese dopo la vita cambia, e Adelaide cambia disposizione dei mobili: è una nuova vita, è una nuova casa. Passano due mesi e mezzo, Adelaide cerca Fabio, non lo trova, poi sì, lo trova. A Novembre si rivedono nella stessa città del loro primo incontro: e si rivedranno altre volte -poche, a dir la verità- fino a Gennaio. Le aspettative deludono sempre, in un modo o nell'altro. Le piaceva fare sesso con lui, le piaceva la sua voce, le infondeva tranquillità. Fine. Stop. Tu a casa tua, io a casa mia, con sempre più sporadici contatti online, ma con la voglia di rivedersi, ché in quanto a sesso i due andavano d'accordo. E se ne è fatto troppo poco. A Natale Adelaide incontra Stefano, si vedono, si piacciono, passano diverse serate insieme, alcune lunghissime, densissime, piene zeppe di chiacchiere. Perché al capitolo IV di Moralità degli umani c'è un paragrafo che spiega che, per quieto vivere e per lasciare intatta quella parte di noi che si crede dignità, bisogna ingioiellare i momenti di frasi e carezze, bisogna farlo. E poi guardarsi con quegli occhi che Adelaide ancora non dimentica. Storia chiusa con un sms. Ci pensa ancora con l'amaro in bocca Adelaide, ma si rimbocca le maniche, in fondo ne ha passate di peggiori. E che peggiori siano! Conosce l'uomodiun'altra, Adelaide, lo conosce da molto tempo: è attraente in un modo che non si può raccontare, è colto, è quello che Adelaide sogna di diventare. La corteggia senza tregua, la invita a cena innumerevoli volte, ricevendo in risposta sempre un no. Adelaide ha paura. Sa che perderà la testa. E la perde, consapevole, senza possibilità di ritorno. Escono insieme, si sentono in continuazione, lui è presenza costante, lei un po' meno perché sa che lui, in realtà, è di un'altra. E al capitolo V di Moralità degli umani c'è scritto, tra le altre cose, che se un uomo è già di un'altra non verrà mai da te. Che non sarà mai tuo, insomma. E che, per rispetto della sua donna, non dovresti neanche sfiorarlo, l'uomodiun'altra. Le cose cambiano, si modificano, tornano i sorrisi, Adelaide non piange più. E ora? E' finita. 

Eh già, perché al capitolo ultimo di Moralità degli umani c'è scritto che tutto quello che è contenuto nel libro è confutabile, non ha niente a che vedere con la scienza, niente è dimostrato. Insomma, sono solo un ammasso di chiacchiere: rispettose, oneste, dignitose e blablabla. Ma la vita non è onesta, non rispetta, non ha un briciolo di dignità e, soprattutto, la sua morte è la Moralità.

Che poi, a dirla tutta, a rovinarsela 'sta vita, Adelaide, ce la fa benissimo da sé. E si rimbocca le maniche ancora, mentre manda giù l'ultimo goccio di caffè.

sabato 10 novembre 2012

venerdì 26 ottobre 2012

Banan(/l)e e chissà - Adelaide si specchia in una pozza e non sa (impiego di neuroni previsto: 1,5)

Sfoglio il volantino delle offerte: pasta al 20% in meno, tonno che sembra un furto, banane plastificate, lucide e invitanti che non comprerò mai. Decido che non andrò al supermercato, e che passerò i prossimi tre giorni sui libri. Decido che è il caso che mi rilassi, acquisto sali da bagno, incenso e tè, avvio la mia playlist del giorno e so che da questo momento, e per i prossimi cinquanta minuti, tutto il mondo è in questa stanza. E sarebbe bello, sì, sarebbe bello, che al mondo non vi fosse altro che vapore, odore di mandorla, acqua e me. O forse no. Forse -e dico forse ma ne sono convinta- Adelaide, di tutto il resto, non potrebbe proprio fare a meno. Delle persone, quelle ridicole, quelle che le fanno pensare che la ragione almeno la accompagna, quelle che "c'è sempre chi sta peggio". Adelaide non potrebbe fare a meno delle persone belle, quelle che si contano su una sola mano, o al massimo due: ad Adelaide sembra di vedere le loro facce sorridenti sui polpastrelli, facce che le parlano quando ne sente il bisogno, e anche quando non ne sente: presenze costanti, sulle dita e nel cuore. Già, perché poi Adelaide è una delle persone più banali e patetiche che esistano: è una che si commuove spesso, che piange a dirotto pure, che si consola con la cioccolata, che ascolta anche canzoni d'amore, vede film struggenti, e fa tutte quelle cose consuete e banali che si fanno alla sua età. E anche dopo. Anche questo confondersi/mi, tra soggetti e pronomi personali alternati, come se riuscisse a vedersi e a non riconoscersi, come si credesse un'altra da sé, come si immaginasse personaggio inventato di un libro dalla copertina bordeaux. E lo trova divertente: nascondersi dietro la giustificazione di non essere la responsabile dei suoi gesti, ché tanto è quell'altra lì, quella col neo tra il naso e la bocca e la liquirizia a farle da carburante, quella che ha tutte le colpe del mondo. Quella che proprio ora ha deciso di aprire il frigo e di mangiare del tiramisù, quella che sta battendo sulla tastiera parole incomprensibili e sconnesse, è lei, è quell'altra lì, che fa tutto questo. Non cerca più nulla, non vuole più nulla. Sorride e si carezza i capelli. Pensa che per troppo tempo ha cercato motivazioni plausibili al comportamento dell'Uomodiun'altra, che non ne vuole trovare più. Che lo vorrebbe ora qui, a stringerla, a mangiare tiramisù con lei, a convincerla che non c'è nulla da inventare al di fuori di lei. Lei che è intatta, così frivola e sciocca, così fragile. Ma Adelaide non lo ammetterebbe mai. Guarda oltre la finestra: Roma si prepara alla pioggia ma mai cielo le è sembrato più limpido, trasparente e sincero di oggi. Piove e qualcosa di buono porterà la pioggia, sia pure solo l'illusione di guardarsi in una pozza e, finalmente, riconoscersi.

Già, perché poi Adelaide è una delle persone più banali che esistano: non vive senza amore, lei che non vive senza amare. E senza liquirizia, eh, che sul volantino delle offerte, stamattina, è al 50% di sconto. (mette la giacca, esce di casa, e si catapulta al supermercato. Nel tragitto del ritorno a casa finisce tutta la liquirizia acquistata. Allora scrive, scrive proprio 'sta roba qui).



mercoledì 12 settembre 2012

Otto dollari (impiego di neuroni previsto: 2)

Il mio zio americano -appena conosciuto, mai visto prima di qualche giorno fa se non in foto- mi dice, tra le altre cose, che a New York, per attraversare un ponte, un solo ponte, paga otto dollari. Penso inevitabilmente a quanto siano diverse le culture, le società, le abitudini. Penso che in Italia paghi -e molto- per un tratto di autostrada che nel più delle volte è proverbiale, segno distintivo di una nazione che va a rotoli. Penso che in Italia sarebbero molte le cose da correggere, ma che con queste, inevitabilmente, si correggerebbe un'identità. E poi penso quant'è buffo che in questa vita qua tutto -ma proprio tutto- abbia un prezzo. Attraversare un ponte che magari ti condurrebbe alla felicità -trovata in un giorno qualunque, dentro un caffè che prima di allora non sapevi neanche che esistesse, alla fine del ponte, nell'attraversare quel ponte... - costa otto dollari. Otto, che se fossero 120 non cambierebbe nulla. La sostanza è che non si ha mai nulla per nulla, e che per avere quel tanto ambito momento di serenità, qualcosa prima o poi darai in cambio. Alla vita, che tanto gentilmente ti ha donato un momento su mille. Uno solo, che generosità. Le darai lacrime, sgomento, rassegnazione, o forse solo un attimo interminabile di apatia. Ma pagherai. Allora accade che d'improvviso capisco che baciare il mio migliore amico non è stata una buona idea, che vederci in un modo nuovo, come mai prima di ora ci eravamo visti, beh, non è stata una buona idea. E' che al passaggio nessuno gridava "un fiorino", eccetto la mia coscienza. Facile è stato evitare di sentirla, solita stupida illusa. Ché pensa di saper tutto lei, e invece appena le affidi qualcosa sai che sbaglierà. Si sovrappone, ogni volta, alle tue necessità. Un bacio che è costato molto più di otto dollari, un bacio che più che un bacio è parso un addio. Addio a te così come sei, addio a noi così come siamo. Otto dollari è costato dirsi che è stato uno sbaglio, che sommati agli otto del bacio siam già a sedici. Il mio zio americano, tra le altre cose, sorride spesso. E' felice -mi dico- di essere tornato in Italy dopo quaranta anni, sorpreso di ritrovare gli stessi luoghi ma così cambiati. Sorride ed io mi sento come a casa mia, lì, nel suo sorriso. Senza attraversare nessun ponte, o nessun oceano. Io che sono sempre ferma e che di dollari, a dirla tutta, non ne ho mai pagato neanche uno. Erano euro. O forse era solo vita. Attimi. Rapporti. Promesse. Disfatte. Tutte pagate lì, al passaggio tra quello che è giusto e quello che volevo. Le cose mutano, mi attraversano, cambiano direzione. Improvvisamente. Eppure, non so perché, sento di non aver mai -dico mai- attraversato quel ponte.

Adelaide saluta lo zio americano e negli occhi prova uno strano senso di nostalgia verso cose che mai ha potuto vedere, che mai ha potuto conoscere. Si tocca ancora il neo che ha sulle labbra, ripassa storia dell'arte in una mattinata qualunque. Sbuffa appena, china la testa e sorride.
Arriverà, si dice Adelaide, un ponte per cui valga la pena svuotare il portafoglio. Arriverà.




sabato 21 luglio 2012

"Sicuro" è che non è sicuro (impiego di neuroni previsto: 1,5)

Un amico mi fa notare che dico sempre "non lo so", che insolente. Adelaide non lo sa, punto. Adelaide non lo sa e questo è tutto. Ché uno non dovrebbe scegliere mai, credo. E invece stamattina Adelaide ha scelto, ha deciso.
Esco di casa alle 10:30, decisa ad andare in agenzia e comprare i biglietti: andata e ritorno, destinazione Puglia. Poi, mentre attraverso col verde per me sulle strisce pedonali, la mia gonna nuova -color mattone- si alza, così, d'improvviso. Come quei giocolieri che si fermano ai semafori e si esibiscono, la mia gonna esigeva un momento di protagonismo assoluto, senza neanche chiedere elemosina. Così la abbasso, velocemente, e continuo a camminare. Il rossore in volto è evidente, e si trasformerà dopo trenta secondi in una goffa risata. Acquisto degli anelli di stoffa, fiori neri e marroni, abbinati agli orecchini acquistati ad un euro e cinquanta in una bancarella in Via De Lollis, e mi sembra l'unica mia azione di cui sono veramente sicura. Così la giornata comincia, nell'aria afosa di una Roma sperduta, in Luglio, quando non le pare vero di veder così poche auto. In compenso i tram si accavallano, pieni di turisti (che non è vero che son cinesi, quelli ci vivono, a Roma). Ed io cammino, con la fretta di sfuggire al sole bollente, coi capelli al vento e la fronte umida, con la mia gonna mattone e i miei fiori di lillà. La signorina dell'agenzia -grandissimissima brava ragazza- mi chiede 120 euro per un viaggio della speranza: mi ricorda i travagli subiti i primi anni di università, rinchiusa in un vagone che somigliava molto a quello di un treno-merci. Dovrebbe esser breve il viaggio. E confortevole. E invece non lo sarà, mi dico, la nube nera mi perseguiterà, non riuscirò neanche a prendere un po' di sole. Che vergogna, quest'anno come l'anno scorso, in costume! Ma mangio. E non vado più a correre, in estate ci si riposa. Ho ricominciato a mangiare regolarmente da dieci giorni, più o meno. Sono già ingrassata. La ciccia è bella -mi dico- quantomeno simpatica, ecco.
I biglietti -quattro, parte con me un mio amico- li ho già persi, non ricordo dove diavolo li ho sistemati pensando "qui saranno al sicuro". "Sicuro" non è niente, e questa ne è l'ennesima conferma. La valigia rimarrà vuota fino a Lunedì, nonostante i buoni propositi di prepararla prima del tempo.
E così Adelaide va in Puglia senza aver accettato l'invito del musicista del XXI secolo. Che idiota, Adelaide, che idiota. E si incammina così, come nell'inizio di un film, con la sua gonna mattone e i suoi fiori di lillà.

E questo è tutto quello che sa.

venerdì 29 giugno 2012

Finirà mai?

Cioè, ci fa più paura essere soli che non essere. O morire. E' spaventoso tutto ciò:



A me fa paura la paura. E poi le vecchie coi bigodini e i denti rotti. E le persone con troppa autostima. Non mi domando se esiste Dio, né da dove veniamo, cosa siamo, dove andiamo, se finirà il mondo, se saremo eterni. Vivo, questo è quanto. Poi mi fa paura il sentimento a senso unico, i serpenti, la malattia. Non di molto altro, a dir la verità. Ma mi fa molta paura chi si preoccupa costantemente della solitudine, ecco. E' come se dichiarasse di essere la persona più sola al mondo e questo è di una tristezza devastante. Nessuno dovrebbe mai sentirsi solo, è ingiusto. Ed è un insulto alla vita.


Adelaide, in cuor suo, ha solo paura di aver paura. Ed avrebbe domandato, sottovoce e con garbo -toccandosi il labbro, come fa sempre quando qualcosa la incuriosisce-:

Finirà mai, la paura?
Ma non è che ci pensi granché, eh.

domenica 10 giugno 2012

Non è bello ciò che piace (impiego di neuroni previsto: 0,5)



Claudio è bianchiccio. Cioè, ha la pelle bianco-latte per intenderci. D’estate e di inverno, senza alcuna differenza di tonalità. Lo conobbi alla presentazione di un romanzo di una tizia (analfabeta, se ne parlerà più in là) in un caffè letterario. Sì, roba da snob, lo so. Ma a me piace. A me piacciono un sacco di cose in realtà (vedi il mio profilo, cliccando sul mio nome, in alto a sinistra). Scontrammo inavvertitamente le nostre mani nel prendere sullo stesso scaffale lo stesso libro. Banale, so anche questo. Eravamo gli unici due a non sentire le chiacchiere della tizia-scrittrice-moccina di cui sopra, presi dalla miriade di libri che lì si potevano sfogliare, leggere, gustare fino alla mezzanotte. E mezzanotte fu, leggendo insieme lo stesso libro, su due copie diverse, ad alta voce ed una pagina per uno. Claudio ha la R moscia, alla francese, che più che moscia sembra gay. Ha una voce calda, di quelle che se lo vedessi –bianco com’è, pure un po’ freddo nei modi- non ti aspetteresti mai. Due mesi dopo la presentazione del libro mi chiese di uscire, destinazione serata lettura. Beh, lo speaker era lui. Era lui. Cioè, era lui (il "cioè" mette in evidenza la mia incredulità).
Ecco. Cioè (il "cioè" ci vuole perché evidenzia il bisogno di una spiegazione…e la spiegazione), quella sera era un’altra persona: il sex-symbol che c’è in lui improvvisamente si manifestava, riuscivo a vederlo fighissimo, abbronzatissimo, ganzissimo. Perché lo stereotipo del sex-symbol è questo, no? Mi correggano gli esperti. Un po’ come il concetto che Gesù era bello e slanciato, magro, occhi azzurri, faccia da bravo ragazzo. E diceva, tra le altre cose impeccabili, che "siamo tutti uguali". Beh, insomma, quella sera io e Claudio siamo finiti a letto. A casa sua c’era la liquirizia. E nello stereo la musica adatta. E poi lesse per me. E forse ero anche ubriaca, va be’.
Insomma, cinque anni con un tipo esteticamente perfetto (Daniel, se ne parlerà pure di questo più in là) so di non essermeli meritati, si intenda. Ma il mio ragazzo era bello. Non scriveva, non leggeva, non ascoltava la mia musica, non conosceva la letteratura. Però era bello. Ntz.
No, questo per dire che a me il detto che "non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace" m’è sempre sembrato pari a "non sto dormendo, ho solo chiuso gli occhi un momento". Ma chi vuoi prendere per gli zebedei? E’ bello ciò che è bello, punto. Quello che ti piace "ti piace", è un altro discorso. E non c’è motivo per definire qualcosa che ti piace "bello". Claudio era ed è bianchiccio, non brutto, ma figo per niente.


Ma è stata la notte di sesso e letteratura più BELLA della mia vita. Tiè.



mercoledì 16 maggio 2012

Enchantée

E io mica lo so se aprire un altro blog è una buona idea. Se i buoni propositi di Adelaide andranno un'altra volta a farsi friggere, o se è la volta buona che imparo ad essere costante. Adelaide ha un cerchietto tra i capelli, è vero. Adora la liquirizia, una nuvola nera la perseguita. Non so se sia sfiga e, nel caso lo fosse, Adelaide se ne sbatte. Ogni volta che qualcosa va storto, pensa che le piacerebbe un sacco fare del sesso, alla faccia di. Adora il pizzo, la pizza ai funghi, i funghi, le piogge estive, di meno l'estate. A casa, riposte in una vetrinetta, ha una collezione di macchine fotografiche datate. Che non sa usare. Sogna in grande, vive in piccolo. Fuma, ahimè, fuma. Ha ciccia quanto basta a non piacersi affatto, ma se ne sbatte. Ama la letteratura, i pois, le lusinghe, il farro, il vino buono. Ama raccontare il suo passato. Ama il buon cinema, la letteratura, la metaletteratura. Ha un neo piccolino sul labbro, matita nera agli occhi, è bionda. Adelaide ha ventiquattro anni e un pezzettino, e due blog. Abita a Roma, al terzo piano della scala B di un palazzo di periferia.

Tutto quello che è stato prima, è stato. Da oggi quel che è stato male non fa più male, no.